Il dolore di perdere un figlio: Vilomah

La perdita di un figlio sfida l’ordine naturale della vita, lasciando i genitori in un dolore così profondo da essere spesso indicibile. Mentre si commemorano i caduti in guerra, è necessario riconoscere la devastante perdita subita dai genitori i cui figli muoiono, indipendentemente dalle circostanze. Non esiste una sola parola nella lingua italiana per descrivere questo dolore unico e straziante.

Questa assenza di un termine specifico per i genitori in lutto è sorprendente. Genitori che hanno perso figli spesso condividono le loro storie, le loro foto, i loro ricordi: un disperato tentativo di connettersi con altri che comprendono la profondità del loro dolore. Questi genitori sono costretti all’atto innaturale di seppellire i propri figli, un compito che dovrebbe spettare di diritto a una generazione successiva. Questa inversione dell’ordine naturale è un tema universale del dolore e della perdita in tutte le culture, riflettendo il sentimento che i genitori non dovrebbero sopravvivere ai propri figli.

La parola sanscrita “vedova”, che significa “vuota”, evidenzia l’inadeguatezza del linguaggio nel catturare la complessità del dolore. Pur riconoscendo il dolore della perdita, non riesce a comprendere l’esperienza specifica di un genitore che seppellisce un figlio. La ricerca di un termine più appropriato ci riporta al sanscrito, una lingua ricca di espressioni sfumate dell’esperienza umana. La parola “vilomah” emerge come una potenziale risposta. Significa “contro un ordine naturale”, descrivendo precisamente la profonda rottura causata dalla morte di un figlio.

Questo concetto di “vilomah” si estende ben oltre il campo di battaglia. Dalle sparatorie nelle scuole ai disastri naturali, dagli incidenti alle malattie, la tragica realtà dei bambini che muoiono prima dei loro genitori persiste. Il numero crescente di genitori in lutto sottolinea l’urgente necessità di una parola che riconosca la loro esperienza condivisa. “Vilomah” offre un modo per nominare questo dolore, per dare voce all’indicibile sofferenza di perdere un figlio.

Sebbene “vilomah” possa suonare sconosciuto, condivide radici etimologiche con “vedova” e offre un senso simile di profonda perdita. Proprio come “vedova” è diventato un termine accettato, “vilomah” ha il potenziale per fornire conforto e riconoscimento ai genitori in lutto. È una parola che si può trovare nelle notizie, nei nostri quartieri, nel silenzio doloroso di coloro che hanno vissuto questa perdita inimmaginabile.

La distinzione tra il dolore di oggi e quello di domani risiede nel potere del linguaggio. “Vilomah” dà un nome al profondo dolore di un genitore che ha perso un figlio, offrendo una comprensione condivisa e un percorso verso la guarigione. Riconosce la tragica realtà che ogni giorno, da qualche parte nel mondo, un altro genitore diventa un vilomah.

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